Fatica, sudore, felicità
Ogni verbo può essere coniugato in modi diversi. Ma uno riesce a produrre una differenza “emotiva” in base al tempo con cui viene utilizzato. È il verbo sudare.
Al presente, quando rappresenta il senso di ciò che stiamo facendo, è spesso sinonimo di sofferenza. Proiettato verso ciò che dovremo fare, suscita preoccupazione. Ma al passato, riferito alla sudata già fatta… Beh, allora tende a evocare soddisfazione. Che ne sia valsa o meno la pena, nel ricordo o racconto che facciamo il verbo sudare sottolinea la grande o piccola impresa di cui siamo stati protagonisti. Poter dire, o anche solo pensare, di aver tenuto duro quando c’era da soffrire rafforza il nostro ego e ci fa sentire bene.
Molti si fermano qui. Non per demerito, ma perché la vita è fatta di opportunità. Che a volte arrivano e altre no, che siamo capaci di riconoscere o che ci sfuggono.
La vita perfetta? È fatta di grandi tentativi
Si può passare una vita intera convinti che riuscire a fare le cose sia ciò che regala felicità. Che incassare grandi risultati sia l’unica cosa che conta. Sbagliato.
Io penso sia una benedizione scoprire che c’è dell’altro. Che si può entrare nel meccanismo al punto da trasformare la fine di una fatica nel viatico immaginario per riprogettarne un’altra. Quasi un’esigenza, un nuovo orizzonte, da inseguire subito per ricominciare a “sudare”. Che tutto quindi si ribalti. Che, tagliando un traguardo, la malinconia per aver concluso il percorso arrivi a oscurare la gioia che ne deriva.
I grandi campioni, quelli che stanno là in alto, sono pochi. Ma ognuno di noi può scegliere un cammino nella vita, percorrerlo e scoprire che questo rappresenta la vera gioia. E allora ciò che può renderci felici è a portata di mano.
Il bello di provarci…
Non l’ho vista sempre in questo modo. Fosse successo a metà dei miei vent’anni, quando forza e resistenza erano strumenti migliori, sarei stato un fuoriclasse. Ma ci sono arrivato e questa oggi è la mia forza. A Brands Hatch nel 2012, al secondo oro su due gare, mentre tagliavo l’ultimo traguardo della “mia” Paralimpiade di Londra, riuscivo a pensare solo a quant’era stato bello provarci. Ricordi unici, legati al lavoro quotidiano, istantanee di momenti diversi lungo un tentativo durato tre anni che già rimpiangevo. Avevo vinto, ma si era chiuso un capitolo della mia vita. Un sentimento addolcito solo dalla certezza che il giorno dopo avrei trovato una nuova scusa per ricominciare a “sudare”.
… e di continuare a sudare
Così tiriamo fuori il meglio, che poi si esalta su certi terreni. Certamente nello sport, dove essere eccezionali è spesso l’unico modo per andare avanti. Ma questo motore così potente può spingerci in mille ambiti diversi. Dallo studio al lavoro, dai piccoli impegni quotidiani alle relazioni personali. Fino alle avversità che a volte incrociano il nostro cammino e grazie alle quali puoi capire davvero chi sei.
Ho iniziato a vincere la mia Paralimpiade a Berlino, nel 2001. Quando in un letto di ospedale, dopo l’incidente terribile in cui ho rischiato di perdere tutto, ero solamente grato ai medici che mi avevano salvato la vita, alla quale attribuivo un valore mai considerato prima. Lì ho capito chi ero, e sono rimasto curioso di scoprire cosa avrei potuto fare con quanto rimasto. Avendolo imparato nello sport, sapevo che sarebbe stato bello sudare per rimettere a posto tutto.
Un progetto appassionante
In questo spazio mi sentirete parlare di temi legati al lavoro di Enervit, a quello della loro Equipe. Non c’è nessun senso del dovere nei confronti della casacca che indosso, solo la condivisione di un progetto che appassiona e che guardiamo da punti diversi d’osservazione. Ed è questo che ci vede agire in modo complementare. Alcuni nascono più dotati, altri meno, tutti possiamo migliorare.
Poi serve sperimentare, correggere gli errori, capire in ogni ambito quali siano i dettagli di cui curarsi. Perché non si può far tutto e aiuta chiedere consiglio a chi di lì è già passato. E infine fare sintesi, aggiungendo il nostro ragionamento. Senza pretendere di innovare su ogni cosa, ma nella convinzione che ogni tanto possa accadere… Perché capita pure che qualcuno pensi che un disabile non possa ambire a certi traguardi. Che l’Ironman sia quasi impossibile per un uomo senza gambe. E se in fondo pensi e dici che la tua fatica possa durare meno di dieci ore, la gente strabuzzi gli occhi pensando che tu sia un folle. Per ora sono sceso a otto ore ventisei minuti e sei secondi. Siccome sono ancora per strada, a sudare, sono eccitato all’idea di scoprire cosa possa ancora offrirmi il mio cammino.